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Giochiamo un po' a parla? Non avvelenata. Tu la lanci in aria ed io le afferro caldo la lingua in gola. Freddo, com’ è freddo freddare le lenzuola calde che scoprono l’ ascolto nuovo, che ascolto volare tante secche di parole . Aride rotolandie a sedimento, e tutto il mutuo gioco che v’ affonda, attorno al groviglia e mangia de la terra allingua colta. S’ aggroviglia di suono morto il rumore non taciuto ed a stento assento la mia presenza, nell’ in-me, me-radice-anima, mentre di volgo altrove desueti sguardi a modì arte e di goffo siculo, in golfo su di un trisiculo Linguismo incerto. Precario affondo nuovo, a fondo perduto rendo meglio. In me travaso e mi trasecolo, al mio mondo giocando a parla, mi congelo il lusso della primamossa.. Nelle 21 lettere peste e ripeste, riposte e risposte ai miei sogni di carne lebbra e carestia, sento, della ruota che trito a sorte, un certo leggero e appiccicoso colore di pelle viva d' anima staccarsi. E tiro a campare di un alfabeto di fortuna la sfortuna di sentirlo questo dolore nuovo.. e di campane sempre più stonate mi s' allegra la mia preghiera. Giochiamo a parla un poco, giochiamo a parla perciò.. tu mele passi e io dottore e pittore tele leggo, tu le scrivi a modo tuo ed io a modo mio le pensolo come vi appare. Le parole girano rotolano tirano e si passano la mia voce. Giocano con me a parla ed io le scrivo compiacere. Così per gioco tiro alla porta dei miei pensieri, compassionevole e con passione. Tiroparla ti riparla e ti riparla questo matto palermitano che crede che sia solo un gioco di parole la radice, il root maleducato che avvia il processo botanico del nostro etimologico incolto orto volante. Volo, clono, disletterato attirare accampare -provo, a tirare a parlare e a giocare a parla coi mostri pensieri, ma lessi e lessico di un po’ sanno di tutto: strutto, stucco, trucco e strucco, sono rassomiglianze dello stesso distrutto e mascherato non muro. Che quasi grazie al buon cedimento di Domenico siffatto in arte Indio, m’ è venuta acclara voglia la voglia d’ una clausura dialettata, dilettata in diletto siculo, dilettamente dallo smemorato ricordo dei miei cortili giovinali. In lauto gergo mi sovvien tutta quanta la nostalgia di quando la signora del primo piano, al secolo oramai defunta, Mandalà Rosalia Assunta, gridava a noi bambini l’ intimato terribile anatema: Chiffà u’ tagghiamu stu palluni? Che nostalgia di quei bei calci ad un pallone. Adesso gioca a parla quel ricordo di me bambino. Ricordo ancora il corello che le facevamo: Mandalà e mandaquaà è inutile che gridi alla città... Mandalà Mandaquà tanto nessuno mai te la dà…